Bomarzo, la piccola località in provincia di Viterbo, custodisce da cinquecento anni il Segreto del Bosco Sacro. Noi lo abbiamo visitato.
Arriviamo a Bomarzo, in una calda mattina di agosto, e dopo aver fatto tanta autostrada è bello avventurarsi nelle piccole stradine completamente immerse nella campagna: percorrendole, avvertiamo tangibilmente il sapore della storia: crocevia di culture, culla della cività etrusca, e di quella romana, è sempre stata teatro dei grandi accadimenti del passato.
Bomarzo che sorge nel cuore della Tuscia, è un caratteristico paese arroccato su una collina e sovrastato dal palazzo cinquecentesco, che appartenne al Principe Pierfrancesco Vicino Orsini il quale immaginò il Sacro Bosco, commissionandone progettazione e costruzione all’architetto Pirro Ligorio.
Il risultato fu talmente eccellente, che dopo tantissimi anni esso attira ancora l’attenzione di storici e studiosi, i quali si interrogano sul significato vero e profondo di questo particolarissimo “giardino”, che – secondo la versione ufficiale – pare essere stato costruito in memoria di Giulia Farnese – moglie di Vicino Orsini – scomparsa prematuramente.
Luogo assolutamente incantato, è un susseguirsi di statue e costruzioni dai simbolismi profondi e complessi, un perfetto esempio di manierismo, e del genere “grottesco” il quale comparve per la prima volta in questi anni, per poi essere ripreso nel tardo settecento ed in epoca vittoriana. Un bosco dal sapore a tratti primordiale, fa da trama e da palcoscenico alle storie che il Principe volle raccontare.
L’accesso al Giardino avviene varcando un portone ad arco, simile a quello di un castello e sovrastato da una rosa simbolo del casato: da quel momento il visitatore viene letteralmente preso per mano dallo spirito del luogo che lo guida in un percorso volto a sovvertire luoghi comuni e consuetudini, in un crescendo di meraviglia.
Enormi statue in peperino come apparizioni oniriche compaiono improvvisamente attraverso la vegetazione, sovrastando il visitatore sia dal punto di vista dimensionale, che intellettivo: ogni raffigurazione è enigmatica, ogni scultura ti lascia sempre una sottile inquitudine ed il desiderio di comprendere di più e meglio.
Soggetti dell’arte classica rinascimentale, si mescolano a richiami orientali come draghi ed elefanti. Una enorme tartaruga ricoperta di muschio, fa da contraltare ad un Pegaso in procinto di spiccare il volo. Una casa edificata ad arte, completa di fregi e stemmi, ma completamente storta: entrandovi si avverte con precisione un profondo senso di smarrimento che rende addirittura difficoltoso muoversi al suo interno. Ed è aggrappandosi alle pareti, ed è cercando di trovare un punto fermo all’interno di essa che si comprende profondamente la volontà di Vicino: apprendere che basta poco – magari pavimenti e pareti inclinati – per causare un profondo senso di smarrimento. Ovvero: siamo legati a vincoli impalpabili ed invisibili, ma che ci rendono quello che siamo.
Passeggiando per questi sentieri ombrosi e muscosi, i sensi vengono raggiunti da una miriade di sensazioni: visive innanzitutto, ma anche tattili ed olfattive; si procede in silenzio sino alla maraviglia successiva.
Elemento centrale di interesse è certamente la celebre raffigurazione dell’Orco, una testa mostruosa, con gli occhi sbarrati ed una bocca spalancata dalla quale si entra. Al suo interno vi è una panca in pietra disposta perimetralmente, ed un tavolo centrale la cui altezza fa pensare fosse in realtà concepito come altare: tutto sommato una stanza raccolta, interamente ricavata a colpi di scalpello, i cui segni sono ancora perfettamente visibili.
L’iscrizione posta sulla bocca spalancata, indica la reale funzione del mostro “Qui ogni pensiero vola”, invitando il visitatore a lasciare andare i timori e di immergersi in questo mondo magico e misterioso.
Luogo di grande romanticismo e di velata tristezza; l’incisione posta su di una stele, “sol per sfogar il core” riconduce immediatamente alla sofferenza provata per la perdita dell’amata Giulia. Come a dire, che per lui la vita ora era oltre, che la vita era altra, che quanto conosciuto precedentemente non aveva più alcun valore.
Un percorso in leggera salita tra querce, lecci, pioppi, cornioli, noci, il tutto morbidamente e riccamente incorniciato da edere, capelvenere e muschi; alla cui sommità è posto un tempietto opera di Jacopo Barozzi detto “il Vignola”. Questa costruzione edificata secondo i canoni della architettura rinascimentale, è diventata un mausoleo che custodisce i resti dei coniugi Bettini, che nell’immediato dopo guerra, presero a cuore il Parco e si occuparono del suo recupero: pare inoltre, che il tempio sia stato concepito per celebrare ed accogliere i resti di Giulia Farnese, che potrebbe essere stata seppellita nel cuore del parco voluto dal marito.
Noi abbiamo percorso il Sacro Bosco con sincera emozione: quando dopo secoli dalla sua nascita, un Giardino riesce – in tempi moderni – ad evocare i medesimi sentimenti di stupore, bellezza e smarrimento, che infondeva certamente nei visitatori dell’epoca, si può essere certi che quel progetto ha superato ogni barriera temporale, raggiungendo l’immortalità.
“Voi che pel mondo gite errando vaghi di veder meraviglie alte et stupende, venite qua ove tutto vi parla d’amore ed arte”.
Vicino Orsini